giovedì 2 luglio 2015

Diary #02

Oggi mi sveglio male. Succede da qualche giorno, succede sempre in sessione esami. Cerco la clausura, sola nella mia casa da fuoriesede, e puntualmente attraverso un infuriare di crisi. Che si traducono poi in silenzi telefonici, spezzati da qualche grido d'aiuto. Ormai chi mi sta vicino lo sa. Ci provano sempre a dirmi: "ma dai, che vai su a fare che le lezioni sono finite". Ma per me è importante riuscire a stare qui, anche se crollo. Voglio imparare a starci.

Tutto si somma: solitudine, difficoltà nello studio a causa dei pensieri che si interpongono tra me e i libri, a causa della sensazione del grasso che ho addosso e che mi obbliga ad alzarmi, chè stare seduta mi infastidisce. I trenta gradi non aiutano, nauseano e la staticità mi uccide. I pasti si confondono, si assottigliano, promesse di leggerezza. Ma poi la fame attacca e con lei la frustrazione. Frustrazione di non saper più resistere, ma che dico...di non voler più resisterle. Io non voglio più ritrovarmi senza forze, con i capelli che cadono, incapace di vedere i colori della vita. Però non voglio essere così grassa, dice una voce della mia testa. Inizia la battaglia; ora che le voci sono diventate due, ora che il DCA non regna più sovrano, è tutto più difficile, perché niente mi tranquillizza. Mangiare mi preoccupa ancora, ma ora ho paura anche di digiunare. Appena sento che mi mancano le forze capisco che sto sbagliando, che mi sto facendo male, ma se vedo i jeans che non vanno più è una tragedia. Poi arriva l'abbuffata, che a volte si moltiplica, che mi toglie le forze. Solo vomitare poi mi annebbia, mi anestetizza. Allora lì si attutisce tutto e ogni cosa viene rimandata a domani.

Un domani come oggi in cui, appunto, mi sveglio male. Ma mi obbligo nella routine, ho ancora tre esami a luglio e sono messa un filo male. Colazione, che riduco. Studio. Ho fame, ma tiro fino all'una. Caccio indietro i pensieri. 
Penso che dovrei non mangiare. Che potrei prendermi un'ora per farmi un giro e poi tornare a studiare. Potrei andare a correre. Dio, ci sono 30 gradi all'ombra, potrei morire. Ho fame. Ma che cazzo sto pensando? Mi arrabbio con me stessa per i pensieri. Mangio. Ok, mangio, ma mangio poco. Rieccoli.

La verità è che oggi mi sento più grassa del solito. Forse sono ingrassata. Forse è il caldo. Forse è che quando cerco di fare un passo fuori dal DCA, il primo ritorno che ho è fisico: mi sento ingrassata, ma realmente. Poi magari l'ago della bilancia non si muove. Ma io sono convinta. E questa percezione mi  assilla fino a farmi un po' perdere di vista ciò che voglio davvero, in funzione di un ideale di felicità e serenità che ho associato alla magrezza e che non riesco più a staccare da lì.

Joe, chiamiamolo così, il mio amico, ha capito che oggi non va. Lui sa tutto e cerca sempre di capire quello che gli dico. Poi cerca sempre di spiegarmi come vede le cose lui. A volte me la prendo un po', anche se non glielo dico, perché penso che sia riduttivo dirmi: "devi vivere". Di fronte al mio disagio, che ho imparato essere più complesso di una semplice rincorsa alla magrezza, il "devi vivere" mi sembra la soluzione comoda, un po' buonista, come la pacca sulla spalla di chi vede il tuo problema, ma non vuole farci i conti, e ti manda il messaggio: "non pensarci". Ma il suo "devi vivere" è sincero. Non mi dà nessuna pacca sulla spalla, rimane lì a sentire. Resta al mio fianco, e mi dice "vivi. Ridi". E andiamo via insieme e in effetti ridiamo, viviamo di brutto. Mi ripete che sono bella, non importa se ho appena finito di ridere o di piangere. "Sei la più bella del mondo, lo sai?". Con lui vivo.  I pensieri ci sono, ma voglio vivere. E una delle prime notti che siamo usciti abbiamo mangiato sulla panchina la pizza bisunta dell'unico fornaio aperto a quell'ora. E ci ho pensato, sì, ci ho pensato che quella roba lì non andava bene. Che poi il giorno dopo avrei dovuto digiunare...e...e...ci penso domani. Sì, ho pensato così. Quella notte volevo solo vivere. Ho rimandato tutto. E il giorno dopo siamo usciti. E ho riamando di un giorno ancora. Poi le crisi vengono, a volte sembrano non finire. Ma intanto ho vissuto, ritardando il momento in cui dover pagare il pegno per il mio star bene. 
Per me è così: per un attimo che sto bene, devo correrne dieci, devo studiarne dieci. Per rimettermi in pari. Come per espiare una colpa. Come per meritarmi il fatto di essere stata bene. E alla fine le cose si invertono: inizio ad espiare la colpa prima di averla commessa, in previsione di qualcosa che potrebbe avvenire. Ma se non avvenisse sarebbe meglio. E quindi finisco per espiare, per soffrire e basta. 
Joe mi ascolta. Mi assiste nella mia fase riflessiva, alla fine mi "scopro" e gli parlo della magrezza, gli dico il significato che ha per me, gli chiedo perché essere magri è importante. Partiamo con un blablabla sulla società. Ma perchè non posso essere libera? Perché non posso essere felice? Sono grassa. Sì, penso due cose opposte allo stesso tempo. Impazzirò. 
Joe inizia a parlarmi del mare. Del fatto che andremo al mare insieme. E se penso di andare in un posto dove dovrò mangiare senza poter fare nulla io, se penso anche solo all'idea del costume mi viene male. Poi andrò e mi metterò quel dannatissimo costume. Morirò dal disagio? Probabile, almeno all'inizio. Ma la verità è che per me il mare non è costume, non è cibo: è fare un viaggio con lui. Poter vedere la sua terra, vivere la sua vita. Sentire che mi sta mostrando una parte di sé, che mi sta accogliendo come parte della sua realtà. Al resto ci penserò, magari quando sarà il momento. Joe ha mandato la palla fuori campo, non sto più facendo avanti e indietro ossessivamente, cercando di mandare la rete da un lato o dall'altro, ma voglio vivere al di fuori del campo. Il grasso? Sì, c'è ancora. C'era, c'è sempre stato, ci sarà.
Pomeriggio di studio, sto seduta tutto il tempo, mi concentro e sono felice. Sì sì, le gambe si toccano e la pancia straborda. Vado a correre. Ceno. Ora scrivo. Perché abbuffarmi? No, oggi no.
Mi son svegliata male, sì, ma poi è andata bene. Sono felice.