martedì 30 giugno 2015

La mia esperienza con i DCA (parte II)

IL PRIMO VIAGGIO IN OSPEDALE E LA PRIMA PSICOLOGA
Facciamo un salto avanti. Eccoci in seconda liceo; altro ambiente, una decina di kg in meno e sempre gli stessi pensieri. "Togli un alimento, togline un altro; salta un pasto qui è uno là. Evita i dolci. Corri ogni giorno un po' di più".

Arrivano gli altri. A forza di togliere alimenti alla dieta, qualcuno si accorse che qualcosa non era più come prima. Io non ero ancora troppo magra per gli altri (per me stessa non lo sarei stata mai), ma di certo stavo dimagrendo in fretta. Tanti mi dicevano che stavo bene, altri invece cominciavano a dirmi che continuavo a dimagrire. Guardavo un po' sorpresa le persone che mi chiedevano se forse non stessi dimagrendo troppo. Troppo? Ma non si rendevano conto? Non vedevano quanto grasso c'era? Io pensavo così.
Quando le cose si fecero più evidenti, iniziarono i problemi: gli altri intervennero. Volevano che mangiassi. Controllavano che mangiassi. Non c'ero più solo io, con la mia volontà di cambiare. C'erano anche gli altri, che iniziavano a volermelo impedire. E quello che feci fu cercare delle strategie per aggirare l'ostacolo.

Io mangio vegetariano. Il vegetarianismo è un'ottima scusa per eliminare un alimento, la carne, dalla dieta. È abbastanza ben accettato, come ormai anche le intolleranze e le allergie alimentari. Io "diventai" vegetariana. "Smisi di digerire" le uova. "Divenni intollerante" agli alimenti che non mi andava di mangiare.

Ospedale. Poi un giorno ebbi dei dolori addominali; se si sommano i dolori addominali un po' seri a un parente medico, il risultato è un ricovero assicurato. Mi trovarono i valori ematici sballati, il ferro sotto i piedi, mi tolsero litri di sangue per le analisi e mi fecero la gastroscopia. Alla fine venne fuori che avevo un'infezione. Ma nel frattempo mia mamma si era spaventata a morte per il ricovero e mi chiedeva "perché non mangi? Perché vuoi morire?". Era spaventata; nella realtà dei fatti, non ero nemmeno sottopeso, solo molto dimagrita, non stavo per morire. E non volevo nemmeno! Ma lei aveva capito, aveva messo insieme i pezzi con una consapevolezza che io ho trovato solo molti anni dopo. Oltre a farmi domande del genere, la mamma-ansiosa aveva parlato con il parente-medico delle mie pensate alimentari. Fu così che il parente-medico mi propose una psicologa.
La proposta mi fu fatta bene. Non pensavo che mi servisse una psicologa, ma compresi che per mia madre, invece, aveva senso che ci parlassi e quindi non rifiutai. Era una tipa carina, con cui in effetti mi trovai bene. La vidi solo un paio di volte e fui dimessa. Non avrebbe potuto seguirmi fuori dall'ospedale, quindi mi lasciò il numero di una psichiatra a cui rivolgermi.

La matita per occhi. Mia madre la chiamò e mio padre mi ci portò. Lo studio della dottoressa era un po' fuori dalla città. Non ricordo di cosa parlammo. So che mi chiese se mi fossi appena truccata. Io le dissi di no, che ero truccata dal mattino, per andare a scuola. Allora volle sapere la marca della matita per occhi, dato che non aveva sbavature. Poi chiamò mio padre, che aspettava fuori, e gli disse che non avevo problemi. In macchina, tornando a casa, piansi disperatamente. Quelle parole mi avevano fatto malissimo: non ha problemi. Tutto il mio disagio, per me così grosso ed esistenziale, era stato ridotto a un niente. Niente più di una matita per occhi.
 Fiumi di lacrime. Mio padre, poverino, alla guida della jeep non sapeva cosa fare. E, ironia della sorte, per tirarmi su il morale decise di fermarsi per comprare una vasca di gelato da mangiare dopo cena. Non è che non avesse capito niente dei miei problemi; forse non aveva ben chiare quali fossero le reali implicazioni, altrimenti magari mi avrebbe consolata in altro modo. O forse voleva solo far finta di niente. In fondo, per 10 anni, era stato abituato alla bambina che diventava la più felice del mondo davanti ad un gelato al cioccolato. Prendemmo il gelato e gli feci promettere di non portami più da una psichiatra.

LA SECONDA PSICOLOGA: COSA È ANDATO STORTO

Lasciata calmare la tempesta della matita per occhi, mia madre tornò all'attacco. Recuperò il numero di una psicologa, mi disse: "è una psicologa, non una psichiatra" (per me era diventato chiaro che i miei problemi non fossero veri problemi per un medico psichiatra). "Dicono che sia molto brava".

Io non volevo andarci, infatti temporeggiai. Poi, a quella che all'epoca consideravo la mia migliore amica consigliarono una psicologa per altri motivi e io trovai il coraggio di andare dalla mia.
 Fu un disastro. Parlammo qualche volta, mi fece tante domande. Poi mi fece i test dell'intelligenza e mi disse che avevo i risultati alti. Mi chiese di disegnare la mia casa e la mia famiglia e le dissi che non ero assolutamente capace. Mi vergognavo anche di come disegnavo. Alla fine, su insistenza, le stilizzai degli omini, come una bambina di tre anni. Quando volevo evadere dalle sue domande, le proponevo Leopardi e i suoi problemi esistenziali. O qualche filosofo. Spesso arrivavo da lei fumata, con la scia di erba che mi seguiva a un chilometro. E più si avvicinava, più la allontanavo. Era junghiana. Un giorno mi chiese come vivessi la sessualità con il mio ragazzo. Si era spinta troppo oltre. Mi disse delle cose giuste; mi disse che il mio vero problema non era il cibo, come pensavo io, non era il fatto di sentirmi grassa. Indagò, o almeno ci provò, il rapporto con mia madre, perché - come mi fece notare - la mamma è la prima persona che ci nutre. Cose giustissime, che magari avessi capito allora, nel loro vero significato! Ma non riuscì a spiegarmele. Purtroppo, non gliene diedi il tempo. Con mio grande sollievo, interruppi la terapia. 

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