IL PRIMO VIAGGIO IN OSPEDALE E LA PRIMA
PSICOLOGA
Facciamo un salto avanti. Eccoci in seconda
liceo; altro ambiente, una decina di kg in meno e sempre gli stessi pensieri. "Togli
un alimento, togline un altro; salta un pasto qui è uno là. Evita i dolci. Corri
ogni giorno un po' di più".
Arrivano gli altri. A
forza di togliere alimenti alla dieta, qualcuno si accorse che qualcosa non era
più come prima. Io non ero ancora troppo magra per gli altri (per me
stessa non lo sarei stata mai), ma di certo stavo dimagrendo in fretta. Tanti
mi dicevano che stavo bene, altri invece cominciavano a dirmi che continuavo
a dimagrire. Guardavo un po' sorpresa le persone che mi chiedevano se forse
non stessi dimagrendo troppo. Troppo? Ma non si rendevano conto? Non vedevano
quanto grasso c'era? Io pensavo così.
Quando le cose si fecero più evidenti,
iniziarono i problemi: gli altri intervennero. Volevano che mangiassi.
Controllavano che mangiassi. Non c'ero più solo io, con la mia volontà di
cambiare. C'erano anche gli altri, che iniziavano a volermelo impedire. E
quello che feci fu cercare delle strategie per aggirare l'ostacolo.
Io mangio vegetariano. Il
vegetarianismo è un'ottima scusa per eliminare un alimento, la carne, dalla
dieta. È abbastanza ben accettato, come ormai anche le intolleranze e le
allergie alimentari. Io "diventai" vegetariana. "Smisi di
digerire" le uova. "Divenni intollerante" agli alimenti che non
mi andava di mangiare.
Ospedale. Poi un giorno ebbi
dei dolori addominali; se si sommano i dolori addominali un po' seri a un
parente medico, il risultato è un ricovero assicurato. Mi trovarono i valori
ematici sballati, il ferro sotto i piedi, mi tolsero litri di sangue per le
analisi e mi fecero la gastroscopia. Alla fine venne fuori che avevo
un'infezione. Ma nel frattempo mia mamma si era spaventata a morte per il
ricovero e mi chiedeva "perché non mangi? Perché vuoi morire?". Era
spaventata; nella realtà dei fatti, non ero nemmeno sottopeso, solo molto
dimagrita, non stavo per morire. E non volevo nemmeno! Ma lei aveva capito,
aveva messo insieme i pezzi con una consapevolezza che io ho trovato solo molti
anni dopo. Oltre a farmi domande del genere, la mamma-ansiosa aveva parlato con
il parente-medico delle mie pensate alimentari. Fu così che il parente-medico
mi propose una psicologa.
La proposta mi fu fatta bene. Non pensavo che
mi servisse una psicologa, ma compresi che per mia madre, invece, aveva senso
che ci parlassi e quindi non rifiutai. Era una tipa carina, con cui in effetti
mi trovai bene. La vidi solo un paio di volte e fui dimessa. Non avrebbe potuto
seguirmi fuori dall'ospedale, quindi mi lasciò il numero di una psichiatra a
cui rivolgermi.
La matita per occhi. Mia
madre la chiamò e mio padre mi ci portò. Lo studio della dottoressa era un po'
fuori dalla città. Non ricordo di cosa parlammo. So che mi chiese se mi fossi appena truccata. Io le dissi di no, che ero truccata dal mattino, per andare a
scuola. Allora volle sapere la marca della matita per occhi, dato che non aveva
sbavature. Poi chiamò mio padre, che aspettava fuori, e gli disse che non avevo
problemi. In macchina, tornando a casa, piansi disperatamente. Quelle parole mi
avevano fatto malissimo: non ha problemi. Tutto il mio disagio, per me
così grosso ed esistenziale, era stato ridotto a un niente. Niente più di una
matita per occhi.
Fiumi di lacrime. Mio padre, poverino, alla guida della jeep non sapeva cosa
fare. E, ironia della sorte, per tirarmi su il morale decise di fermarsi per
comprare una vasca di gelato da mangiare dopo cena. Non è che non avesse capito
niente dei miei problemi; forse non aveva ben chiare quali fossero le reali
implicazioni, altrimenti magari mi avrebbe consolata in altro modo. O forse
voleva solo far finta di niente. In fondo, per 10 anni, era stato abituato alla
bambina che diventava la più felice del mondo davanti ad un gelato al
cioccolato. Prendemmo il gelato e gli feci promettere di non portami più da una
psichiatra.
LA SECONDA PSICOLOGA: COSA È ANDATO STORTO
Lasciata calmare la tempesta della matita per
occhi, mia madre tornò all'attacco. Recuperò il numero di una psicologa, mi
disse: "è una psicologa, non una psichiatra" (per me era
diventato chiaro che i miei problemi non fossero veri problemi per un medico
psichiatra). "Dicono che sia molto brava".
Io non volevo andarci, infatti temporeggiai.
Poi, a quella che all'epoca consideravo la mia migliore amica consigliarono una
psicologa per altri motivi e io trovai il coraggio di andare dalla mia.
Fu un
disastro. Parlammo qualche volta, mi fece tante domande. Poi mi fece i test dell'intelligenza
e mi disse che avevo i risultati alti. Mi chiese di disegnare la mia casa e la
mia famiglia e le dissi che non ero assolutamente capace. Mi vergognavo anche
di come disegnavo. Alla fine, su insistenza, le stilizzai degli omini, come una
bambina di tre anni. Quando volevo evadere dalle sue domande, le proponevo
Leopardi e i suoi problemi esistenziali. O qualche filosofo. Spesso arrivavo da lei fumata, con la scia di erba che mi seguiva a un chilometro. E più si
avvicinava, più la allontanavo. Era junghiana. Un giorno mi chiese come vivessi
la sessualità con il mio ragazzo. Si era spinta troppo oltre. Mi disse delle
cose giuste; mi disse che il mio vero problema non era il cibo, come pensavo
io, non era il fatto di sentirmi grassa. Indagò, o almeno ci provò, il rapporto con mia madre,
perché - come mi fece notare - la mamma è la prima persona che ci nutre. Cose
giustissime, che magari avessi capito allora, nel loro vero significato! Ma non
riuscì a spiegarmele. Purtroppo, non gliene diedi il tempo. Con mio grande
sollievo, interruppi la terapia.
Nessun commento:
Posta un commento